Un Maestro fra i Maestri. La ricerca etnografica di Franco Oppo con i suonatori di launeddas
1969 2002) – pushed Franco Oppo beyond a “mediated” listening of traditional music and brought him to broaden his theoretical horizons (Oppo, 1984 and 1994). Although he was not interested in carrying out an ethnomusicological survey stricto sensu, his direct involvement and the close contact with all players allowed him to produce several sound documents, attesting the existence of a vital and widespread expressive dimension – even beyond the Campidano areas – in which not every musical aspect resulted “predictable” as he supposed, and where – on the contrary – many features of the music-making were constantly discussed by the players themselves.
On behalf of Istituto Superiore Regionale Etnografico (ISRE) in Nuoro, Sardinian composer Franco Oppo (1935-2016) carried out a fieldwork (from 1985 to 1987) with the aim of detecting scale systems in the launeddas instrumental tradition. Oppo recorded his fieldwork, involving dozens of players and instrument makers who were working in certain areas of Central-Southern Sardinia. Going far beyond the intentions initially set by the composer/researcher himself, a peculiar corpus of unpublished sound recordings and ethnographic-descriptive papers of this investigation inform on: styles, practices, and musical scenarios; circulation of specific repertoires; musical choices and discourses of each player/maker; adherence to (or detachment from) pre-existing musical schemes; creation and invention on organological and performative levels. Such immersive experience – firstly thought of as an expanding of previous research (Bentzon,Franco Oppo, ethnographic research, ethnomusicology, launeddas players, Sardinia, musical discourses
1. Introduzione
Tra il 1985 e il 1987, per conto dell’Istituto Superiore Regionale Etnografico di Nuoro, il compositore Franco Oppo (Nuoro 1935 — Cagliari 2014) svolge una ricerca, intitolata “Progetto Murales”, con l’obiettivo di rilevare i sistemi di scale nella tradizione strumentale delle launeddas e le diverse combinazioni di cuntzertus, documentando il lavoro sul campo nel cui ambito sono coinvolti diversi suonatori e costruttori esperti operanti in quegli anni in alcune aree della Sardegna centro-meridionale. Da un corpus di registrazioni sonore inedite, schede tecniche e apparati etnografico-descrittivi affiora un quadro particolareggiato su una indagine che – spingendosi ben oltre gli obiettivi inizialmente prefissati dal compositore/ricercatore – informa su: stili, pratiche e scenari esecutivi; modalità di circolazione e di fruizione dei repertori; scelte e discorsi musicali propri di ciascun suonatore/costruttore; adesione a (o distacco da) schemi musicali preesistenti e margini di creazione e/o invenzione di ordine organologico e musicale. 1 Insieme ad alcuni esponenti di spicco, fra cui Dionigi Burranca e Aurelio Porcu, i suonatori e costruttori di launeddas incontrati da Oppo sono stati di fatto interpreti, partecipi e, soprattutto, prosecutori della tradizione strumentale di quegli anni. Il percorso immersivo ha spinto il compositore nuorese oltre l’ascolto “mediato” della musica di tradizione, consentendogli di ampliare peraltro i suoi orizzonti teorici. Pur non essendo interessato a compiere una indagine etnomusicologica in senso stretto, l’esperienza a contatto diretto con i suonatori nel corso dell’indagine sul campo ha contribuito alla produzione di numerosi documenti sonori che testimoniano una dimensione espressiva in cui non tutto risulta prevedibile e dove, al contrario, tanti aspetti del fare musica vengono costantemente problematicizzati dai protagonisti di questa tradizione strumentale. Lo scritto che segue, pertanto si suddivide in due parti: la prima rappresenta un approfondimento rispetto a quanto abbia preceduto tale ricerca e di come l’opera compositiva di Franco Oppo (1976-1983) abbia avuto un peso rilevante sull’approccio etnografico che egli ha riservato all’esperienza sul campo tra i suonatori di launeddas; la seconda, riguarda esclusivamente la ricerca condotta nel biennio 1985-1987 e si sofferma sulla metodologia e sugli “output” che sono scaturiti da questa indagine, come pure sui protagonisti, sul loro modo di pensare ed eseguire la musica e sui rapporti tra i vari esponenti di questa tradizione strumentale.
2. Dalla fascinazione all’esperienza
Nella monografia curata da Consuelo Giglio, l’autrice sottolinea da subito il contatto diretto di Franco Oppo con esecutori ed esecutrici di canti e musiche della tradizione orale sarda, nel tempo e nei luoghi della sua infanzia e preadolescenza. In quest’opera critico-biografica, anche se appena accennate, si narrano situazioni nelle quali, ancora bambino, Oppo risulterebbe esser stato “esposto” a (e “immerso” in) dimensioni di ascolto diretto di canti monodici, polivocali e polifonici, come pure di esecuzioni strumentali alle launeddas, verosimilmente, in contesti di aggregazione sociale (Giglio, 2011, pp. 17), senza specificazioni aggiuntive sul tipo di ambienti, sui luoghi e sulle eventuali persone coinvolte e/o protagoniste di un paesaggio sonoro appena abbozzato — la sola eccezione è la menzione della casa-sede di lavoro della nonna:
Canti monodici quali anninnie e attitidu, canti polivocali come il tenore barbaricino e le danze per launeddas si sedimentano sin dall’infanzia nella sua sensibilità con originaria forza d’attrazione, ben prima che Diego Carpitella e Pietro Sassu li registrino e li trascrivano, conducendo – specialmente Sassu dal ’64 al ’69 – un’imponente ricerca sul campo; e prima ancora che li analizzino insieme al linguista Leonardo Sole (…) quando lungo la sua infanzia vi viene a contatto, quella cultura musicale di primaria importanza per le popolazioni sarde (sino ad oggi «espressione assai viva e variegata, pienamente integrata negli scenari della vita quotidiana e festiva») è ancora un terreno vergine la cui conoscenza si limita a quanto ne ha da poco scritto e trascritto Giulio Fara – pioniere dell’etnomusicologia isolana insieme a Gavino Gabriel (…) per Oppo bambino la suggestione di quel mondo sonoro si fa più forte durante le vacanze, quando la famiglia si sposta da Nuoro alla stazioncina del Tirso, nella campagna in direzione di Macomer percorsa dall’omonimo fiume; ed era ospite della nonna materna che gestiva il punto di ristoro come concesso alle vedove dei capostazione. (Giglio, 2011, pp. 14-16)
Che questi canti e danze si “stratifichino” «con originaria forza d’attrazione» non presuppone necessariamente una implicazione profonda di Oppo in contesti tradizionali: quasi nulla delle narrazioni intorno alla prima parte della sua vita (a eccezione dei momenti sopramenzionati e poco altro) fa pensare che egli sia stato totalmente immerso in tali contesti al punto da acquisire modi di pensare, linguaggi ed espressioni –– come se fossero i propri. Molto più probabilmente, come scrive Giglio, si tratta di una «suggestione di quel mondo sonoro», esperita per brevi (anche se indubbiamente significativi) momenti dell’anno, durante la fanciullezza: nelle estati trascorse in quel solitario punto di passaggio e ristoro, nei pressi di Illorai, denominato Stazione del Tirso. Lo stesso Oppo ne parla in questi termini:
Era inevitabile, credo proprio un destino che prima o poi dovessi ritornare ad occuparmi del linguaggio della musica popolare, io sono nato a Nuoro e sino all’età di 12-13 anni non ho avuto occasione di sentire altra musica che non fosse la musica popolare della Sardegna, successivamente mi sono immerso negli studi della musica classica e ho dimenticato quasi la musica popolare, ma evidentemente una traccia importantissima è rimasta nella mia personalità e prima o poi doveva riemergere. (Pappalardo, 1991, 47’35’’ [Clip 2])
Non conoscendo ulteriori dettagli relativi alla permanenza di Oppo presso la Stazione del Tirso, mi è possibile solo presupporre l’eventualità che, a contatto con l’anziana nonna e il suo contesto di vita, egli possa esser stato “impressionato” (ma non calato al punto da condividere discorsi musicali con le persone in quegli ambienti) da specifiche forme espressive, tra cui le ninne nanne (anninnias) che, come è noto (cfr. Carraro, Melis & Spanu, 2004; Milia, 2015; Cosci, 2022), convergono in vari modi e in diversi momenti della fase compositiva centrale, ovvero nella produzione degli anni ‘70/’80 (mi riferisco alle Tre Berceuses per pianoforte e ad Anninnia I e II). Ritengo opportuno legare il processo di scrittura di questi lavori specifici a una base (complessa) di “impressioni” aggiuntive e integrate, che hanno senz’altro contribuito alla costruzione dell’immaginario e le successive teorizzazioni del compositore nuorese: interessi personali, percorsi di studio – quindi letture e ascolti specifici – oltre che incontri e frequentazioni con persone che hanno concorso appieno alla formazione del suo pensiero musicale. Questo “immaginario”, tradotto poi in «idea» (Spanu 2005, p. 180) si riflette/esprime, in un modo o nell’altro, nel pensiero e nella scrittura musicale di Franco Oppo, o, perlomeno, in questa parte significativa della sua produzione, tra: creazione, ri-creazione e l’evidente tentativo di mettere in connessione alcuni suoi assunti teorici di stampo strutturalista (cfr. Oppo, 1984) con forme ed espressioni musicali della tradizione orale sarda — mi riferisco non solo all’analisi che egli compie di alcune ninne nanne, ma pure a una idea (e una teoria) di organicità e coerenza interna delle strutture musicali in repertori che provengono da altre dimensioni espressive. In questo senso, la ricerca sul campo del 1985-1987, tra suonatori e costruttori di launeddas – condotta sotto gli auspici dell’Istituto Superiore Regionale Etnografico di Nuoro, e i cui esiti sono parzialmente confluiti nel noto saggio sui sistemi dei cuntzertus (Oppo, 1994) – è risultata un’esperienza centrale attraverso la quale, ancora una volta, il compositore ha tentato l’innesto di due modi di pensare la musica tramite la presunta analogia fra le loro strutture: mi riferisco, ad esempio, a Fiorassiu in la e a Variazioni su temi popolari [Clip 1]. Queste ultime, di fatti, hanno previsto la compartecipazione di Luigi Lai,2 il quale
Esegue alcuni temi popolari, che ad Oppo interessano in quanto materiali statisticamente omogenei (“questa è una caratteristica peculiare della musica per launeddas, dove le tecniche tradizionali di esecuzione ruotano intorno ad ambiti di variabilità ristretti e prevedibili”) e che costituiscono una fonte sonora continua, elaborata e variata dal computer attraverso trasposizioni, ritardi, risonanze, filtri, feed back. (Mattietti, 2005, p. 10)
È importante non sottovalutare la centralità e la complessità (musicale ed “extramusicale”) di pratiche e modi di trasmissione dei saperi, entro cui – come Oppo stesso ha potuto osservare sul campo – si confrontano (e spesso si scontrano) riflessioni discordanti da parte dei protagonisti e interpreti di questa tradizione strumentale. In quell’ambito specifico, infatti, gioca un ruolo di primo piano anche la creazione individuale e la possibilità di “inventare” (modi, strumenti) uscendo dagli schemi “imposti” dalla “tradizione”: cosa che amplia, anziché restringere il concetto stesso di “variazione”, rendendo l’esecuzione tutto fuorché prevedibile. 3 Le ricerche sul campo svolte nel biennio 1985-1987 per conto dell’ISRE di Nuoro lo mettono di fronte a un sistema culturale/espressivo altamente strutturato, condiviso e diffuso ben oltre l’area del Campidano o, in generale, della Sardegna meridionale, fino al cuore della Barbagia. 4 Soprattutto, è in quel contesto che Oppo pare rendersi conto, progressivamente, di come – in analogia a quanto avviene nell’ambito formativo “accademico” – la creatività individuale e l’esperienza personale dei suonatori delle «popolazioni sarde» (definizione che utilizza spesso, come a porre un confine tra sé e i gruppi cui si riferisce) si sviluppino in articolati contesti (e ambienti) di apprendimento, attraverso l’ascolto e l’osservazione reciproca durante le pubbliche esecuzioni e tramite l’osservazione diretta dei maestri, nel lungo percorso di apprendimento da parte degli allievi. L’immersione e il contatto diretto con alcuni protagonisti della tradizione (e non l’idea[lizzazione] delle «popolazioni sarde») gli apre uno spiraglio sulla vita di (e le relazioni tra) suonatori esperti e meno esperti che Oppo intuisce essere parte integrante di una cultura in quegli anni ritenuta “a rischio di estinzione”. Questa esperienza lo spinge oltre l’ascolto “mediato” della musica tradizionale.
Ho deciso ancora di restare in Sardegna; evidentemente c’era qualche cosa di profondo che mi legava alla mia terra e tutto sommato avevo messo a fuoco un certo stile di vita e un certo tipo di rapporto con le cose che mi permetteva di lavorare in un certo modo soltanto, appunto, stando in una situazione di isolamento e in contatto con una realtà sociale e culturale molto diversa, molto particolare come quella delle popolazioni sarde, che costituiva un po’ l’alimento per la mia attività e la mia riflessione di compositore. x(Pappalardo, 1991, 03’42’’-04’30’’ [Clip 2])
Nel corso del secondo Novecento, avviene un contatto significativo tra la musica (e la cultura) di tradizione orale e quella cosiddetta “d’arte”. Questo si sviluppa su vari piani, a più livelli, e con diversi esiti, a seconda delle personali esperienze di diversi compositori. In Italia, quelle di Bruno Maderna, 5 Luigi Nono 6 e Luciano Berio 7 – per citarne alcune – sono state in questo senso delle esperienze significative, sebbene si sia trattato spesso di un complesso e problematico processo di integrazione fra ambienti sociali e culturali profondamente distanti, specialmente nell’approccio con e «nell’esegesi delle fonti» scritte o sonore: un problema «assai comune fra i compositori che si confrontano con musiche “altre”» (Cosci 2022, p. 400). Il caso di Oppo è peculiare: a eccezione del periodo in Polonia e altre brevi esperienze al di fuori della Sardegna, in buona sostanza, egli spende gran parte della sua vita nella sua isola, rinuncia (pur con una certa sofferenza) a incarichi importanti in vari conservatori d’Italia – fra tutti, la cattedra al Conservatorio di Milano, con la convinzione (forse indotta) che risiedere in Sardegna possa incoraggiare un’immersione intensa, un assorbimento diretto di certe esperienze musicali. Una delle prime “spinte” a restare proverrebbe proprio da Luigi Nono, come racconta lo stesso Oppo: «Lo incontrai casualmente a Varsavia, era seduto con la moglie sui gradini di una chiesa; “Cosa fai qui?” mi disse “sei un pazzo! In Sardegna c’è tanto lavoro da fare, tanta musica nell’aria: devi andare a lavorare ad Orgosolo, a Gavoi, non qui”.» 9 Durante le registrazioni sul campo tra i suonatori di launeddas, Franco Oppo dimostra di conoscere (e riconoscere) parti significative del repertorio strumentale sacro: questo, perlomeno, ho potuto dedurre dall’ascolto delle conversazioni con i maestri, durante le quali, in più punti, Oppo ha discusso, ad esempio, l’esecuzione di pastorelle 10 — segno che in qualche maniera ne abbia identificato tratti, forma e funzioni, ma, soprattutto, specifici contesti esecutivi. 11
2.1. Mediazioni
Prima di soffermarmi sull’esperienza di ricerca di Oppo svolta per conto dell’Istituto Superiore Regionale Etnografico di Nuoro (1985-1987) vorrei compiere una sintesi delle ricerche compiute in Sardegna dalla fine degli anni ’40 sino alla fine degli anni ’60 – indagini che precedono la nota pubblicazione di Diego Carpitella, Pietro Sassu e Leonardo Sole ([1973] 2011) – le quali fanno luce sui primi approcci metodologici dell’etnomusicologia strictu sensu, oltre che sulle problematiche relative a tecnologia e obiettivi delle registrazioni sonore prodotte nel ventennio successivo alla Seconda guerra mondiale. Nel 1948, con la nascita del Centro Nazionale di Studi di Musica Popolare, diretto da Giorgio Nataletti, «la Discoteca di Stato, malgrado tutte le buone intenzioni dei suoi direttori (…) non aveva finora risolto il problema più assillante, quello cioè della registrazione della musica popolare.» (Nataletti & Carpitella, s.d., p. 120). Per la fine del 1950 si contano 417 registrazioni, gran parte delle quali realizzate in Lazio e Sardegna con il proposito di ampliare e perfezionare l’integrazione fra i testi, le registrazioni e l’apparato descrittivo (le schede) di melodie e «generi di poesia popolare» (Nataletti & Carpitella, s.d., p. 121). 12 Le problematiche principali sono sintetizzate e al tempo stesso espresse in modo chiaro e diretto proprio nel contributo di Nataletti, che, a quello stadio delle ricerche, si pone moltissime domande, alcune delle quali risultano estremamente attuali:
(…) “cosa” raccogliere? La musica “popolare”? E che cosa è la musica “popolare”? Quella “folklorica”? O quella “tradizionale”? O quella “etnica”? Quella apparentemente “antica”? O anche quella apparentemente “moderna”? (…) E “come” raccogliere? Quali mezzi “materiali” migliori, quali quelli “psicologici” più idonei per arrivare al più presto ad una efficace “presa di contatto”? Indagine personale, individuale, riservatissima? O non piuttosto una indagine a “squadre”, con specialisti di ogni disciplina interessata, con fotografi, operatori cinematografici e quindi, evidentemente, collettiva, di pubblica risonanza? A largo raggio geografico? O in zone ristrette o ristrettissime? A carattere generale, indagando su tutta la latitudine della scienza? O a saggio limitatissimo, a soggetto monografico? Operare con tono distaccato, altero, rude? O non preferire un atteggiamento comprensivo, familiare, dolce? Raccogliere su disco? Su nastro? Su entrambi i mezzi? Trascurare la trascrizione immediata del testo letterario? O trascriverlo subito anche manualmente? Notare e fotografare i gesti, gli atteggiamenti, i movimenti degli esecutori? O no? (…) E come assicurare la “perennità” di tutti questi materiali documentari così raccolti? Si conserveranno i dischi di acetato? Ed i nastri magnetici fino a quando conserveranno “impresse” le variazioni di campo? (Nataletti & Carpitella, s.d., p. 30) 13
È utile constatare che proprio in questo periodo nella discografia commerciale risultino «totalmente assenti i canti tipici della vita familiare come le ninne nanne (anninnias) o le lamentazioni funebri (attìtidos), i canti di lavoro (mutos e mutetus), quelli devozionali e paraliturgici) (…)» (Lutzu, 2022, p. 324), e che, invece, provenga proprio dall’interesse di alcuni compositori l’accostamento a canti ed espressioni dell’intimità familiare o a dimensioni sonore meno esplorate: ciascuno di questi vi innesta il proprio percorso stilistico, formale, compositivo, culturale.14 Un esempio è Motettu de tristura, di Luciano Berio, inclusa nella raccolta Folk Songs (1964), come pure altre sue esperienze orientate a una “etnografia musicale” in senso lato, anche in contesti urbani, attraverso cui il compositore compie un percorso di appropriazione e rielaborazione di testi e percorsi storici, per ricreare nuovi lavori (Delcambre-Monpoël, 2001, 92). Sebbene un po’ prima, soprattutto per questioni anagrafiche, pure Luciano Berio, come Franco Oppo, in fondo, si accosta criticamente alla musica di tradizione orale e ai paesaggi sonori della “fascia artigianale-folklorica” attraverso una esperienza mediata.15
2.2. “Un’idea fatta di suoni”
Oppo ribadisce più volte come il suo accostamento “consapevole” alla musica di tradizione orale sia avvenuto principalmente durante la scrittura di Praxodia I e II: la prima (1976), un’opera «aperta» (Giglio, 2011, p. 72) per due voci soliste, chitarra, pianoforte, violoncello, contrabbasso e percussioni; la seconda una sua più estesa variante teatrale (1979). Questo lavoro è la premessa a una serie di procedimenti compositivi applicati, da ora innanzi, ad altre composizioni con richiamo diretto a forme ed espressioni della cultura musicale sarda. Attraversando la poetica di Agostinho Neto – raccolta in un volume intitolato Con occhi asciutti – Oppo inizia a intravedere alcune analogie fra le strutture della musica “d’arte” e quelle dei linguaggi delle musiche di tradizione orale. I testi dell’angolano, a cui Oppo attinge per la composizione di Praxodia, sono stati diffusi in Italia nella traduzione di Joyce Lussu, sua amica.16 L’opera teatrale Praxodia II si apre proprio con un frammento di Contratados, la prima poesia che compare nel volume sopramenzionato (Neto, 1963, pp. 48, 50).
A questo punto non è possibile (né utile) scindere la personalità di Oppo compositore da quella di teorico e pensatore immerso nell’ideologia di quegli anni. La consapevolezza maturata nel corso degli anni ’70, attraverso varie esperienze – fra tutte la vita in (e i rapporti con la) Polonia – lo portano a comprendere appieno la complessità dell’individuo, la sua relazione con gli altri e la posizione “politica” specie di chi fa o si occupa di musica. Non a caso, dunque, come Giovanni Spissu ha già avuto modo di scrivere nel 1976, Praxodia è concepita così che «il rapporto tra compositore ed interprete [sia] (…) elemento essenziale della sua struttura (…) adesione reciproca ai meccanismi strutturali del brano (…) adesione ideologica.» (Giglio, 2011, p. 75). Questa reciprocità, che può diventare collaborazione, è un concetto lontano dall’idea di rapporto verticale e di distanza fra compositore ed esecutore/interprete, tant’è che «agli esecutori vengono offerti gli schemi logici […] perché collaborino in piena dignità di comprensione al risultato finale» (Giglio, 2011, p. 76). Trudu ha sottolineato come in Praxodia II (opera teatrale), l’ambito vocale estremamente ristretto possa già essere inteso come un «riferimento agli stilemi della musica popolare» (Giglio, 2011, p. 79).
Del rapporto con la tradizione musicale sarda di matrice orale si è discusso negli ultimi anni (cfr. Milia, 2011 e 2015; Giglio,2011; Spanu, 2005; Cosci, 2020 e 2022; Dal Molin, 2022). Per quanto riguarda alcuni aspetti dei processi compositivi è stato già specificato come Oppo abbia integrato e impiegato liberamente le strutture di alcuni modelli espressivi della musica di tradizione orale. Anninnia II (1981-1982) introduce ed elabora materiali sonori già presenti nelle Tre berceuses per pianoforte solista (1980-1981), e queste ultime risultano centrali nel graduale avvicinamento del compositore a una dimensione creativa legata a memorie di dimensioni sonore dell’intimità (immaginate, idealizzate o esperite in un tempo indefinito). Ed è Oppo stesso ad argomentare la centralità dell’ascolto e la memoria di queste musiche nella costruzione della sua dimensione compositiva: la traccia sonora – ancor più che la trascrizione musicale – è tenuta in grande considerazione dal compositore, in quanto presenta caratteri strutturali fondamentali che non sono espressi nelle brevi trascrizioni sul pentagramma. Nel caso delle Tre berceuses la scelta di una scrittura pianistica consente a Oppo di proiettare quei contorni melodici sulle cinque ottave dello strumento conferendo una sonorità moderna che diventa base per una struttura armonica secondo un procedimento concepito sulla scorta di alcune letture specifiche che, a suo dire, lo avviano a una concezione strutturalista della composizione. Negli anni che precedono Praxodia, Anninnia I e, in seguito, le Tre Berceuses e Anninnia II, Franco Oppo si immerge di fatti nello studio della “teoria dell’informazione” di John Pierce e approfondisce gli assunti dell’autore e scienziato statunitense, per il quale è necessaria la previsione, descrizione e, naturalmente, la comprensione dei comportamenti umani attraverso l’osservazione di eventi «complessi e diversi»: «Salvo nella glottologia, la scienza non arriva alla comprensione passando attraverso lo studio delle parole e dei loro nessi, ma guardando alle cose della natura, incluse la natura e l’attività umana, che possono essere raggruppate e capite.» (Pierce, 1963, p. 16). Così Oppo ascolta le voci e parte dall’idea che molti eventi sonori apparentemente “inutili”, “assenti” o inauditi siano invece parte integrante (con funzione strutturale), di una composizione musicale, che nella sua idea «tende al controllo totale dei materiali».17 Anche nelle opere aleatorie il compositore può verificare con rigore tale struttura, se parte da una «buona idea musicale (…)»; spiega, infatti, che «prima di iniziare a scrivere una composizione è necessario avere un’idea fatta di suoni» (Spanu, 2005, p. 180).
Descrivendo le anninnias sarde come monodie semplici e strofiche microvariate, e rivolgendosi proprio alle loro strutture e microstrutture nascoste, Franco Oppo lavora ad Anninnia II usando «poche note, brevi frammenti tematici, procedimenti combinatori rigorosi, rapporti contrappuntistici elementari, microvariazioni» (Giglio, 2011, p. 90). Nelle sue parole, quest’ultima composizione, che trae spunto da profili melodici delle anninnias, si svilupperebbe principalmente attraverso la dislocazione delle altezze. Le Tre berceuses per pianoforte solo (1980-1981) impiegano ed elaborano tre distinte melodie di anninnias derivate da altrettante trascrizioni compiute dall’etnomusicologo Pietro Sassu nel corso di un lavoro sul campo svolto nel 1967 in tre località diverse della Sardegna: Seui, Ossi e Bosa (v. Figure 1-6). Oltre che sull’assimilazione ed elaborazione delle trascrizioni compiute da Sassu (cfr. Carpitella, Sassu & Sole, 2011, p. 69), le berceuses si basano soprattutto sull’ascolto del materiale prodotto durante quella campagna di ricerca: attraverso di esso Oppo si rende conto della ricchezza melodica, specie nel raffronto con trascrizioni che generalmente omettono molti aspetti performativi densi di significato. Pietro Sassu spiega come nel canto sardo vi siano versi stereotipi di tipo strutturale e refrain: la funzione dei primi è di “assorbire e valorizzare” il contenuto musicale e testuale, mentre per quanto riguarda i refrain si tratterebbe di una funzione “economica” e di un modulo tipico «(sia per la strutturazione dei valori fonici che ritmici e musicali) proposto generalmente fin dall’esordio e ripreso con leggere varianti in tutti gli altri versi. Cambia il senso delle parole, orbitanti di regola all’interno dello stesso campo semantico» (Sassu & Sole, 1972, p. 118).
I rapporti che Oppo intende creare fra percezioni sonore, memorie (di vita), studio a tavolino di elementi e strutture del canto solista (femminile) e delle sue “microvarianti” (lemma impiegato dal compositore in osmosi con la terminologia adottata da Carpitella, Sassu e Sole cfr. ([1973] 2011) e ri-scritture “moderne”, assumono valore ulteriore se messi in relazione ai processi di scrittura musicale per pianoforte, che, come il compositore stesso sottolinea, rappresentano il suo iniziale contatto con la musica e la scrittura: «Appena ho conosciuto le note e ho imparato a mettere le mani sul pianoforte ho cominciato a scrivere. (…) lo spazio disponibile per inventare qualcosa, partendo dal poco che conoscevo, era enorme.» (cfr. Spanu, 2004, p. 9). Diversamente dai compositori della generazione precedente, tra cui Eugenio Porrino, Franco Oppo non si limita all’impiego di temi immediatamente riconoscibili, ma si sofferma sulle loro strutture e “microstrutture”, sulle possibili combinazioni dei brevi profili melodici e sulla permutazione dei toni che li compongono. Oppo tiene in gran conto ciò che Carpitella, Sassu e Sole hanno individuato come struttura “coerente” nella tradizione vocale di matrice orale, che anche in ambito linguistico è indicata in termini di microstruttura e microvariazione con una coesione strutturale propria. Per questo e altri motivi si convince dell’esistenza di una analogia fra le modalità di elaborazione e sviluppo di materiali melodico-ritmico-metrici nella tradizione orale (sarda) e lo strutturalismo che contraddistinguerebbe la sua posizione di compositore (posizione parzialmente teorizzata in Oppo, 1984).
Il compositore si forma una tale opinione accostandosi alla teoria strutturalista impiegata principalmente in ambito linguistico; attinge al contributo del linguista Leonardo Sole, prendendo in prestito le definizioni di “microstrutture” e “microvariazioni” riferite a questioni di carattere fonetico e al rapporto tra fonema e metro. Anche Pietro Sassu utilizza entrambe le locuzioni per indicare il tipo di impiego e le modalità di sviluppo di melodie apparentemente semplicissime, non solo nelle anninnias, ma pure in altre tipologie di canto (duru-duru, mutos e attìtidu).
I brevissimi frammenti tematici delle ninne nanne sono elaborati non soltanto attraverso l’utilizzo delle combinazioni, ma pure secondo una prospettiva compositiva che tiene conto della centralità di ritmi e timbri: segno, questo, che il compositore non si sia soffermato unicamente sul “testo” musicale, ma che attraverso l’ascolto si sia immerso nelle profondità delle tessiture vocali delle esecutrici di anninnias, analizzandone la struttura metrico-ritmica, integrata poi di fatto nella composizione. D’altra parte, è Oppo stesso a esporre le ragioni che lo portano ad accostarsi alla musica sarda, sia pur con la difficoltà (ma non l’impossibilità) di coniugare i linguaggi della musica “colta” attuale con le strutture e i “climi sonori” che contraddistinguono il canto e le musiche di tradizione orale – ciò si evince dai ragionamenti che seguono:
Intorno alla metà degli anni ’70 e (…) con Praxodia (…) quasi inconsapevolmente (…) è riemersa una possibilità, appunto, di riarticolare la musica con moduli della musica popolare, quindi con qualcosa che era fortemente distaccato dalla pratica musicale atonale, aleatoria, seriale di quell’epoca. Non era facile abbinare il modo di essere, il linguaggio della musica popolare con le tecniche compositive, col pensiero musicale attuale, a lungo ho esitato prima di scrivere delle composizioni nelle quali intenzionalmente affrontavo questa tematica, ma dopo Praxodia è stato direi abbastanza semplice. Son ritornato alla musica popolare attraverso una tematica strutturalistica analitica (…) attraverso un approccio estremamente rigoroso, cioè: l’idea fu quella di adottare gli stessi criteri strutturali organizzativi della composizione già utilizzati nella Musica per chitarra e quartetto d’archi, e successivamente in Praxodia con l’aggancio al testo, di riutilizzarli, utilizzando però questa volta degli schemi strutturali derivati dalla musica popolare. Fu così che […] ho dedicato un po’ di tempo a studiare le strutture delle ninne nanne popolari della Sardegna: anninnias, e ho verificato che esistevano dei meccanismi strutturali molto rigorosi, addirittura dei procedimenti combinatori che si ripresentavano (…) sia dal punto di vista ritmico, sia dal punto di vista melodico, cioè delle modalità di articolazione che corrispondevano perfettamente a quelle adottate nelle mie precedenti composizioni. Quindi, mi son reso conto che era possibile inserire nella mia musica elementi derivati dalla musica popolare senza per questo modificare il mio atteggiamento, il mio indirizzo di ricerca, adottato fino ad allora. Anninnia I e Anninnia II sono due composizioni dove appunto vengono utilizzati questi meccanismi; quindi, non vi sono citazioni di temi: questo qui era un modo di far riferimento alla musica popolare tipicamente romantico, che non mi pare oggi sia più accettabile, non mi pare che sia motivato, anche perché dal punto di vista proprio delle caratteristiche stilistiche non è possibile questo inserimento, non mi sembra perlomeno possibile. Ma, il recupero di determinate strutture, di determinati procedimenti combinatori mi pare che sia possibile. Devo dire che ho scoperto anche che tutta la tematica della musica aleatoria si poteva riagganciare in maniera molto forte con quella della musica popolare, anche la musica popolare è fatta di tante microvarianti, cioè delle strutture di base che però vengono continuamente variate e modificate dai cantori; quindi, questo concetto di aleatorio esiste già nella musica tradizionale, o perlomeno esiste nella musica tradizionale della Sardegna. Poi questo tipo di approccio è continuato e si è modificato, un’altra composizione è ad esempio Attìttidu – attìttidu è il canto funebre – anche qui non ci sono citazioni ma ripropongo soltanto quel “clima sonoro”, di svilupparsi del canto, della melodia, della sequenza di segmenti musicali che, appunto, è tipica del canto funebre della Sardegna. (Pappalardo, 1991, 47’37’’-52’16’’ [Clip 2])
3. Progetto “Murales”
Per un anno ho lavorato alla contestualizzazione di alcune esperienze compiute da Franco Oppo, con lo scopo di delineare i caratteri e i motivi della sua presenza e collaborazione con l’Istituto Superiore Regionale Etnografico (ISRE), fondato a Nuoro negli anni ‘70 (cfr. Bernardi, 1991, pp. 338-340). L’ISRE non soltanto sovvenziona la sua lunga ricerca per quanto coinvolge il compositore in altre iniziative di documentazione, tra cui la Festa del Santissimo Redentore: in questo caso, nell’estate del 1985 l’istituto, diretto al tempo da Giovanni Lilliu, richiede l’ingresso di Oppo nella commissione culturale composta da Pietro Sassu, Diego Carpitella e altri importanti studiosi locali.19 Queste e altre situazioni pregresse risultano significative per poter descrivere i diversi contesti entro i quali Oppo figura ora come promotore di iniziative (nel caso dei corsi di aggiornamento SIEM organizzati ad Aritzo, nel 1973 e ad Alghero, negli anni 1974-1975, cfr. Dal Molin, 2022, pp. 475-480), ora come esperto chiamato in causa: ritengo che tali esperienze siano state fondamentali per la presentazione del progetto di ricerca tra i maestri di launeddas, denominato “Murales”. Le 53 registrazioni che ho avuto modo di ascoltare contengono le altrettante conversazioni tra Franco Oppo e venti fra suonatori, costruttori e un solo studioso di launeddas.20 Queste hanno una durata media di 47’, salvo pochissime eccezioni; i dialoghi avvengono nelle abitazioni dei protagonisti di questa indagine; pertanto, è sempre Franco Oppo a spostarsi di casa in casa e da paese in paese, alla ricerca di persone specifiche. In alcuni casi, le registrazioni sono disturbate da rumori di fondo: nulla che impedisca l’ascolto e la comprensione di ciò di cui si discute, nonché delle esecuzioni/dimostrazioni di ciascun suonatore e/o costruttore. Nelle schede relative alla maggior parte dei nastri magnetici è segnalato il nome dell’allora giovanissimo Lucio Garau – al tempo, allievo di Oppo. Sono pochi i casi in cui Garau non risulti presente o non prenda la parola. In due soli casi, Franco Oppo si avvale anche della presenza e degli interventi di Gian Nicola Spanu (v. Nastri nn. 24-26, conversazioni con Vincenzo Bellu e Isidoro Fenu) e Antonio Mattana (v. Nastro n. 28, conversazione con Giuseppe Cuga e Luigi Melis). La maggior parte delle registrazioni (Conversazioni) è stereo e alcune di queste hanno un canale “muto”; ovvero, dei due microfoni sincronizzati, uno è sempre molto distante rispetto alla fonte sonora principale (voce del suonatore, voci dei ricercatori, suoni e musiche prodotti), creando così un disturbo al secondo canale attivo che risulta inutile dal punto di vista analitico. Per la schedatura delle rilevazioni sonore è stato utilizzato il modello di scheda FKM (folklore musicale), in vigore dal 1978 al 2002, anche se sin dagli anni ‘80 «ritenuta insufficiente a restituire un quadro analitico del bene etnico-musicale» (cfr. Strutturazione dei dati delle schede di catalogo. Scheda BDI…, 2006, p. 25). Nelle schede sono appuntate diverse annotazioni aggiuntive che arricchiscono il quadro generale dell’indagine di Oppo, nel raffronto col resto del materiale (le Conversazioni in sé e la Relazione finale rimasta parzialmente inedita) nonché con gli studi etnografici ed etnomusicologici immediatamente precedenti e successivi all’indagine 1985-87. La posizione di “isolamento” geografico unita al grande spirito di osservazione consentono a Franco Oppo di assorbire e applicare metodologie, e impiegare sensatamente terminologie afferenti ad altre aree disciplinari (semantica, linguistica, etnografia); non a caso, immagino che rielabori e reimpieghi anche la metodologia di indagine di Andreas Fridolin Weis Bentzon (2002) per la sua ricerca sul campo nei paesi della Sardegna centro-meridionale, allo scopo di arricchire e sviluppare il contributo del ricercatore danese, tentando il completamento di alcuni argomenti che il compositore/ricercatore nuorese sosteneva esser stati lasciati incompiuti.21 Come Bentzon, infatti, anche Oppo (che, però, poteva contare su una tecnologia per la registrazione e l’analisi sonora più avanzata) si concentra sulla rilevazione delle frequenze al fine di compiere (in teoria) delle analisi statistiche con l’ausilio dei computer.22 Allo stesso modo, si appropria, ragionevolmente, della terminologia impiegata da Pietro Sassu per approcciarsi ai testi e alle registrazioni sonore raccolti. La centralità del ritmo nella concezione musicale di Oppo si può dedurre in modo trasversale e indiretto osservando la modalità di compilazione delle schede FKM relative all’indagine sui suonatori di launeddas e sui loro repertori. In ciascuna delle 58 schede, pur avendo avuto la possibilità di (e le competenze per) indicare ulteriori annotazioni critiche sulle modalità esecutive e gli sviluppi di nodas o pichiadas23 – sia sul piano orizzontale (delle varianti melodiche), sia sul piano verticale (dei rapporti armonici) – Oppo si limita di fatto ad appuntare più o meno dettagliatamente i soli moduli ritmici. L’assenza di annotazioni riferibili ai parametri delle altezze rafforza l’idea della preminenza – nel pensiero musicale del compositore – di elementi quali le successioni, le ripetizioni e le alternanze tra moduli ritmici diversi, al punto da tralasciare aspetti musicali altrettanto significativi.
3.1. Protagonisti della ricerca
Franco Oppo stabilisce di interloquire direttamente con esperti suonatori e costruttori di launeddas, ma pure con alcuni appassionati e dilettanti. Il suo obiettivo è raccogliere quante più informazioni dirette che restituiscano un quadro dettagliato sull’impiego e le peculiarità organologiche, legate tanto alla costruzione dello strumento quanto all’elaborazione dei cuntzertus. Per le launeddas, strumento tricalamo tipico della tradizione musicale sarda, 24, esiste, infatti «una serie di accordature fondamentali (…), in sardo cuntzèrtus, ciascuna delle quali è tagliata in diverse tonalità, pùntus.» (2002, p. 19). Le accordature standardizzate sono: ispinellu, ispinellu a pipia, su paru e sa mongia, fiuda bagadia, mediana, mediana a pipia, fiuda e fiorassiu [ibidem, 20]. Delle persone intervistate, solo Dionigi Burranca, Aurelio Porcu, Giovanni e Daniele Casu, e Francesco Castangia risultano esser stati informatori del ricercatore danese, negli anni ’50 e ‘60 (cfr. 2002, pp. 30, 40, 46, 96). Da un confronto tra la Relazione finale inedita di Franco Oppo e le conversazioni, emergono infatti nomi nuovi del panorama esecutivo/organologico, alcuni dei quali pure menzionati nel corso delle conversazioni, anche se non risultanti in alcuna registrazione sonora, questi ultimi sono: Carmelo Airi, Luigi Arixi, Sergio Ballia, Mario Cancedda, Cesare Carta, Roberto Corona, Luigi Cotza, Sandro Frau, Antonio Lecis, Angelo Madeddu, Franco Mascia, Graziano Mascia, Orlando Mascia, Sebastiano Medda, Franco Melis, Franco Meloni, Raimondo Meloni, Antonio Mura, Eugenio Ollusu, Attilio Scroccu, Antonio Trebini, “Tore” Trebini, Diego Antonio Are e Sebastiano Carta. Molti di questi, pur non essendo considerati “esponenti emblematici”, sono in ogni caso interpreti della tradizione; in questo senso, l’indagine di Oppo restituisce un gran numero di presenze, nel contesto della pratica musicale, che a loro modo hanno contribuito a dare continuità alla tradizione launeddistica nelle aree di: Sarrabus, Trexenta, Campidano di Oristano e di Cagliari e una piccola parte della Barbagia. Le schede FKM – che dovrebbero essere sempre confrontate con gli esiti sonori del lavoro sul campo – descrivono sommariamente le esecuzioni dei seguenti suonatori: Giuseppe Cuga (1), Aurelio Porcu (1), Pietrino Murtas (13), 25, Giovanni Orrù (1), Giovanni Murtas (3), 26, Giovanni Casu (9), Vincenzo Bellu (4), Isidoro Fenu (2), Stefano Crobu (5), Beniamino Cuccu (2), Giovanni Meli (2), Benigno Sestu (13), Rocco Melis (2). Oltre ad annotare le varie informazioni riguardanti il rilevamento (luogo, data, notizie anagrafiche sull’informatore, tipologie di strumento impiegato ed esecuzione, funzione e/o occasione, registrazione) richieste nello stesso formulario, Oppo appone alcune notizie aggiuntive: (a) nella sezione relativa al “modulo” (descrizioni del tipo di suddivisione ritmica e metronomo); (b) nell’area dedicata alle “notizie critiche” (chiarimenti di carattere organologico, notizie riguardanti le modalità di apprendimento delle musiche descritte). Benigno Sestu è l’unico suonatore ad aver registrato alcuni brani in studio (v. “notizie critiche”, schede FKM nn. 96-101). Sebbene Oppo abbia la possibilità e le conoscenze per poter includere maggiori informazioni nella sezione relativa al “modulo” delle schede FKM (ad esempio informazioni su eventuali profili melodici o informazioni più dettagliate su aspetti armonici), egli si limita unicamente a dare notizie sulla forma ritmica.
3.2. Conversazioni
Alcuni contesti esecutivi rievocati attraverso la narrazione dei suonatori di launeddas nati fra i primi anni del ‘900 e gli anni ‘30, rivelano specifiche dinamiche tra questi ultimi e le istituzioni incaricate di organizzare processioni, feste religiose e altre attività paraliturgiche: i migliori suonatori sono ingaggiati da comitati o opredie – in entrambi i casi degli organismi laici locali con funzione decisionale per le situazioni sopra indicate. In diversi punti dei dialoghi sono rese note le funzioni di alcuni modelli, forme musicali e modalità esecutive in determinati contesti sociali: musiche per danza (pass’e dusu, pass’e trese, passu brincau, 27, passu torrau, pass’e cantai, 28, ballu cabillu, 29, ballu tzoppu, etc…), accompagnamenti al canto, suonate per messe, processioni religiose, sposalizi, battesimi e altre tipologie di aggregazione sociale (perlopiù – ma non solo – a sfondo sacro). È discussa in più momenti la circolazione fisica dei suonatori e la conseguente diffusione e propagazione di stili musicali nel “triangolo culturale” Villaputzu-Muravera-San Vito e nel campidano di Oristano (Cabras, naturalmente, con Tramatza, Samatzai, Riola, San Vero Milis e Zerfaliu). 30
Un argomento discusso da ciascun suonatore riguarda il periodo di apprendimento/apprendistato: la testimonianza di diversi intervistati porta a conoscenza dei contesti e delle modalità di acquisizione delle competenze musicali (in particolare le conversazioni con Sestu, Murtas e Porcu) e da tali testimonianze si possono dedurre: (a) il tipo di relazioni instaurate fra maestri e allievi; (b) le durate delle varie forme di apprendistato; (c) la conseguente creazione di un proprio circuito musicale e lo scambio (o la sua totale assenza – vi sono alcuni casi, non ultimo quello di Daniele Casu) con altri suonatori (anche di altre aree). Dai dialoghi emergono inoltre dei dettagli su comportamenti musicali in parte condivisi, in parte frutto di scelte di carattere individuale; è discussa pertanto sia l’accettazione di una normativa comune, sia il valore (o il diniego) di espressioni marcatamente individuali in ambito esecutivo. Dalle conversazioni si possono estrapolare opinioni e pareri di ciascun suonatore (o costruttore) riguardo l’accoglimento o il rigetto di determinati “modi di suonare”, ovvero stili e modalità esecutive che riguardano principalmente la dinamica (in senso proprio, musicale), l’agogica come pure l’adesione a (o l’allontanamento da) schemi musicali fissati, acquisiti e a loro volta ri-trasmessi – non poche in questo senso sono le critiche mosse ai celebri suonatori Luigi Lai («tropu lestu») ed Efisio Melis. I suonatori che esprimono tali riserve sembrano non tenere conto della differenza che intercorre fra una esecuzione dal vivo “in contesto” e il “prodotto” di una registrazione svolta con varie finalità, pronunciando giudizi negativi in tal senso. Questo aspetto non riguarda, comunque, tutti i suonatori: molti altri, infatti, sostengono a spada tratta – e ciascuno con le proprie motivazioni – i maestri sopramenzionati, considerati come i “padri” o addirittura “i capi assoluti” delle launeddas. Una questione particolarmente sentita – dal momento che i suonatori sono spesso pure costruttori dei propri strumenti – è la possibilità o l’impossibilità di creare nuovi cuntzertus. Anche in questo senso si hanno opinioni discordanti e in alcuni casi assolutamente personali. Dai documenti (scritti e registrazioni sonore), alcuni aspetti performativi (in primis la gestualità del musicista) si possono discutere davvero molto a fatica; tuttavia, è importante l’intreccio che emerge tra il fare musica inteso come rapporto tra musica e corpo nella performance e il pensare la musica in relazione al corpo-strumento. Molti dei suonatori intervistati possono costruire da sé le proprie canne o ricercare con assoluta perizia quelle adatte per l’esecuzione del proprio repertorio; altri esprimono un sentimento di possesso nei riguardi dei propri strumenti, nonché una certa riluttanza a condividere informazioni (misure, tipologie) con elementi esterni al proprio contesto culturale – si veda ad esempio il fantomatico murischeddu di Giovanni Casu (cfr. I.S.R.E. Progetto Murales, Nastro 8, lato B, 42’25’’) che il suonatore dice di aver custodito insieme ad altri strumenti “particolari”. Quando un suonatore è – come nella maggior parte dei casi – anche costruttore, la realizzazione dello strumento procede per tentativi e fra un tentativo e l’altro possono venir fuori soluzioni nuove le quali non è detto trovino poi una destinazione in contesti esecutivi; tuttavia, in tale percorso per prove ed errori proprio questo tipo di tentativi sono parte fondamentale, integrante e costante di un vero e proprio life-long learning, (v. I.S.R.E. Progetto Murales, Nastro n. 21 lato A, Benigno Sestu) che è importante, in questa sede, mettere in evidenza come contributo/esito fondamentale della ricerca di Franco Oppo.
3.3. Sonus de canna
Il termine launeddas è discusso più volte, lo stesso Oppo si rende conto di come questa parola non esista veramente nel lessico dei suonatori, se non come frutto di un processo di osmosi culturale, avvenuto nel tempo, attraverso i vari contatti tra suonatori professionisti, semiprofessionisti e amatoriali e fra tutti questi e gli studiosi di etnomusicologia. Nell’informalità dei vari colloqui emerge sempre l’espressione sonus de canna (suono della canna) e più volte i suonatori ribadiscono l’estraneità alla più diffusa e internazionalizzata soluzione linguistica, ampiamente dibattuta – e a quanto ho capito ancora oggi irrisolta, dal punto di vista linguistico (cfr. Paulis, 1994). È interessante l’impiego di termini “particolari” che riguardano più da vicino gli esiti sonori sia connessi alla performance, sia all’organologia (come risultato delle varie combinazioni di canne). Sembra vi sia una certa autonomia, da parte dei protagonisti della tradizione, che si fonda sulla pratica e sulla costante comunicazione tra suonatore e suonatore – oltre la terminologia acclarata – e relativa agli aspetti più generali di carattere organologico, nonché al sistema storicizzato dei cuntzertus. Alcuni aggettivi che definiscono sia lo strumento sia il suono prodotto (i timbri, le altezze e l’intensità) fanno parte di un vocabolario individuale: il timbro del fioràssiu argentinu di cui parla Bentzon, ad esempio – «Dopo il mio soggiorno nell’isola, nel 1958, Burranca fece delle ricerche di sua iniziativa e riuscì a trovare i seguenti termini: fiorassiu argentinu, fiorassiu dal suono alto e brillante (…)» (1969, p. 22) – è ulteriormente chiarito nel corso di una conversazione con Dionigi Burranca: con i termini “iscuillanti” (aggettivo usato più volte dal maestro per definire un certo tipo di suono) e “cupo” egli si riferisce unicamente all’altezza: «Argentinu vuol dire che ha le note alte (…) Argentino vuol dire alto (…) sonu de s’àngelu». Il fioràssiu argentinu pur non essendo elevato a “status” di cuntzertu – «è cambiamento di strumento è basta» – lascia intendere la possibilità di cambiare una delle due canne melodiche modificando così le scale che identificherebbero quel determinato strumento: «Burranca: se trovo il fioràssiu in do diesis, metto la mancosedda bassa della mediana a pipìa in do diesis: è quel lavoro (…) / Oppo: quindi lei esclude che il fioràssiu argentinu possa essere appunto un cuntzertu diverso? / Burranca: no, no, no, argentinu si dice anche la mediana argentina.» 31
3.4. Sistema di scale e combinazioni di cuntzertus
Il sistema di scale è senza dubbio l’oggetto principale della trattazione di Franco Oppo sia nella sua Relazione finale, sia nel saggio del 1994 che riprende in piccola parte quanto redatto nel suddetto resoconto conclusivo. Per quanto vi sia una categorizzazione definita e condivisa da tutti i suonatori, esiste di fatto una grande varietà di combinazioni di cuntzertus che nasce dalla creatività e dall’esperienza individuale. Queste combinazioni si apprendono sia attraverso l’ascolto e l’osservazione reciproca tra suonatori durante le pubbliche esecuzioni, sia, privatamente, tramite l’osservazione diretta del maestro che dà comunicazioni specifiche all’allievo, nel corso delle lezioni individuali (o collettive). Questo aspetto è la parte sostanziale dei discorsi che intercorrono fra Oppo e i suonatori. Ciascuna conversazione è puntellata da domande specifiche del compositore/ricercatore a proposito degli strumenti che i suonatori man mano mostrano e suonano nel tempo trascorso insieme. A ciascuno, quando è possibile e quando il suonatore è ben disposto a farlo, Oppo chiede di eseguire lentamente le note del tumbu (basso) e i tetracordi delle due canne melodiche (mancosa manna e mancosedda), nonché di descrivere ciascun cuntzertu o esemplare particolare. Ad esempio, Dionigi Burranca fa accenno a un fioràssiu basso, con la mancosedda (seconda canna melodica) intonata all’ottava inferiore, e a un tipo analogo detto “a pipia” ovvero un diverso cuntzertu di fioràssiu, probabilmente con una delle due canne melodiche più acute rispetto al modello di uso comune. Questo fioràssiu con la mancosedda bassa di Burranca non è considerato dal suonatore come un vero e proprio cuntzertu; tuttavia, egli ne possiede un esemplare che suona solo in alcune occasioni. Oltre a ciò, il maestro specifica come questo tipo consista in una loba 32 di fioràssiu con la mancosedda all’ottava inferiore:
Beppi Sanna lo suonava quando era richiesto, per esempio quando i ricchi facevano un festino [e] molte volte lasciavano partecipare alla servitù, quelli che credevano migliori della servitù, non potendo partecipare, e richiedevano tutte queste cose, perché i più approfonditi erano i benestanti. Nel secolo scorso quando è arrivato l’organetto e quindi a Samatzai c’erano quelli che suonavano violini, violoncelli etc… viole… ed erano molto affezionati, a Samatzai. 33
Nella stessa conversazione, Burranca parla a Oppo di un taglio di fioràssiu in do diesis, con la mancosedda bassa.
3.5. Strumenti in disuso, inventati o “preservati”
Alcuni strumenti citati in Bentzon interessano Oppo per varie ragioni (particolarità intervallari, combinazione di canne, impiego in repertori specifici et al.), questi sono: sa mediana frassa, su moriscu, su frassettu, su punt’e kyrie e su contrappuntu (cfr. 1969, pp. 21-22). Seguendo uno schema ben definito, si riserva, alla fine di ogni conversazione, di chiedere spiegazioni e delucidazioni di ordine organologico riguardo uno o più di questi esemplari. Le domande che pone ai suoi interlocutori generalmente portano a una discussione più o meno articolata su tali tipologie di strumenti (discorsi che dipendono dalla conoscenza individuale, oltre che dall’età anagrafica di ciascun suonatore); Oppo, in modo particolare, si sofferma sul moriscu; è evidente che, fra tutti, questo strumento “fantasma” susciti in lui un particolare interesse, tanto da includerne la trascrizione in Spanu (1994), richiamando la menzione che ne fa Bentzon e trascrivendone il cuntzertu, (dedotto sempre in parte da Bentzon), semplicemente invertendo i tetracordi di ispinellu, poiché di fatto non riesce a ricavare molte informazioni dai suonatori. 34 D’altro canto, ciascun suonatore ha una propria opinione e una propria narrazione riguardo a questo, come agli altri strumenti sopra menzionati. Ad esempio, Burranca: «questo moriscu è una cosa fatta dei crabaresu e senza iscuola, e basta». 35 E sempre Burranca: «(…) ma cosa si crede che è la mediana falsa? È punto d’organo e mancosedda della mediana (…) la suono se voglio suonare dei pasticci da suonare (…) nessun mai suonatore ha suonato quello, nessuno! Se si mettono e lo fanno, fanno qualche pasticcio»; Oppo: «non è un cuntzertu la mediana falsa?»; Burranca: «non è nudda!» 36 Alcune combinazioni di canne non sono menzionate in Bentzon, ad esempio la mediana e cantai = una mediana “grande” in do (probabilmente un do basso); così pure dei tagli particolari come la fiuda bagadia in sib, il fiorasseddu in sib e altri modelli. 37 Altre volte i suonatori citano strumenti che non hanno mai avuto modo di ascoltare dal vivo o che conoscono per sentito dire, è il caso di un esemplare di launeddas con la mancosedda intonata nel modo minore e la mancosa manna intonata nel modo maggiore. 38
Oppo: (…) e a te risulta, che esistevano strumenti con la terza minore?
Cuga: esistevano, cioè, riuscivano a fare le note sia nel maggiore un po’ approssimato se vogliamo perché dovrebbe cambiare anche… dovrebbe essere in minore anche il basso no?
Oppo: il basso… il basso non deve cambiare, il basso è lo stesso
Cuga: sempre lo stesso?
Oppo: sì il basso è lo stesso
Cuga: allora lo facevano, cioè, facevano una nota allungata, più lunga: otturavano per ottenere il maggiore, otturavano e lasciavano libero; per ottenere il minore otturavano la metà praticamente della nota, la parte superiore, e ottenevano il minore
Oppo: con che cosa l’otturavano?
Cuga: col dito stesso
Oppo: col dito, non con la cera?
Cuga: no, col dito. È questo, che riuscivano a cambiare tonalità in questo modo.
Oppo: ho capito: chi te l’ha dette queste cose?
Cuga: mah l’ho letto nel libro, però suonatori che facessero questo l’hanno detto tutti, tutti quanti lo sanno però nessuno lo fa (…)
Questo passaggio, nonché la dichiarazione «l’ho letto nel libro», potrebbero indicare la conoscenza indiretta del modello di fiuda bagadia detta “in fa minore”, a sua volta descritto dallo studioso danese come uno strumento il cui tumbu risulta dimezzato (“minore”, pertanto, indica non il modo, naturalmente, ma la lunghezza della canna):
La parola “maggiore”, nell’espressione mediana in re maggiore, sebbene indubitabilmente presa in prestito dal linguaggio musicale colto, è usata per indicare la lunghezza del tumbu di questo cuntzertu. Efisio Melis, che si era costruito una fiuda bagadia in fa con un tumbu lungo la metà del normale, chiamava questo cuntzertu fiuda bagadia in fa minore. (cfr. 1969, p. 22)
3.6. Pensare e dire la musica
I suonatori incontrati sono consapevoli della complessità del proprio sistema musicale, nonché dell’intersezione – storica o storicizzata – fra quest’ultimo e la terminologia (la teoria musicale) di derivazione “colta”. In più conversazioni, Benzon e Fara sono stati spesso criticati per non aver compreso bene alcuni aspetti fondamentali del fare la musica in Sardegna. Alcuni suonatori, talvolta, discutono gli aspetti puramente teorici utilizzando una terminologia “presa in prestito”; percepiscono, conoscono e definiscono la musica che praticano impiegando un lessico “accademico” (cromatismi, alterazioni, intervalli, relazioni armoniche etc.), altre volte ci tengono a puntualizzare che quest’ultimo non sia parte del modo di concepire ed esprimere la propria realtà musicale, ma che sia «sa musica dotta». 39 Altri termini connessi all’organologia e alla prassi esecutiva delle launeddas sono del tutto particolari, ad esempio quelli impiegati nei discorsi parlati, che fanno riferimento all’altezza specifica di un suono o, più generale, riferibili alla misura di una canna, perciò “piccolo” è acuto, “grusso” o “grande” indica la parola grave: «Fenu: per fare quella prova la facciamo con questa. / Garau: perché questa è migliore? / Fenu: è più grande». 40 Ugualmente, esistono locuzioni che fanno parte del “dizionario” launeddistico, a cui sembra però che ciascun suonatore dia una propria personale spiegazione, per fare un esempio: i puntus sono detti, descritti e impiegati da più di un suonatore e ciascuno di essi con questo termine indica delle cose diverse: Daniele Casu ne parla in relazione a tre tipologie di punt’e organu: pittìa, mannu e terzu, ovvero piccolo, grande e “terzo”; «Casu: nosu narà punt’e orguneddu pittìa; punt’e orgunu mannu; punt’e orgunu terzu (…) non è che andiamo sulla tonalità, noi andiamo: primo, secondo e terzo.» 41 Bentzon ne fa accenno:
Dopo il mio soggiorno nell’isola, nel 1958, Burranca fece delle ricerche di sua iniziativa e riuscì a trovare i seguenti termini: fioràssiu argentìnu, fiorassiu dal suono alto e brillante; punt’e Chìrias, la tonalità per il Kyrie eleison della Messa; punt’ ‘e organu, la tonalità per suonare con l’organo; mesu puntu, il punto di mezzo, una tonalità vicina al sol; e infine tertzu puntu, il terzo punto, una tonalità molto bassa come quella del contrappuntu. (1969, p. 22)
Burranca, discutendo con Oppo, smentisce con decisione l’esistenza del mezu puntu: «non esistidi (mezzo punto non esiste), è una parola in più. Esiste terzo punto, sicundu puntu (secondo punto), non mezu puntu (mezzo punto). / Oppo: non esiste. / Burranca: no, mezo puntu non esiste.»42
3.7. Recepire la letteratura
Il compositore nuorese si rifà per molti aspetti alla metodologia di ricerca di Bentzon, in un certo senso sembra voler “ricalcare” le sue orme o comunque partire dalle sue considerazioni (per completare alcuni punti che ritiene siano stati lasciati in sospeso nella nota pubblicazione) impiegando in gran parte il suo metodo di ricerca (perlopiù misurazioni di frequenza) per spiegare il sistema dei cuntzertus. Menziona poche volte Giulio Fara, dimostrando però di conoscerne la letteratura; tuttavia, dichiaratamente non fa molto affidamento alle sue interpretazioni. Dalle conversazioni non emerge altra letteratura, se non qualche riferimento a incisioni (la discografia di Luigi Lai, Efisio Melis e Dionigi Burranca) e agli scritti di Giovanni Dore che – se non erro – sono discussi proprio in concomitanza con la visita allo studioso. I dialoghi con Giovanni Dore (Don Dore) e alcune conversazioni con Burranca possono essere utili per un confronto tra quanto scritto e analizzato in Bentzon e Fara (quest’ultimo, in particolare, pare abbia riportato grossolani errori di trascrizione riguardanti un punto d’organo in do, a detta di Burranca). 43 Alcuni dei suonatori intervistati sono stati a loro tempo informatori di Bentzon, ma la gran parte, come dicevo, no. È singolare che tutti conoscano “il libro” anche se al tempo di Oppo non risulta esser stata pubblicata alcuna traduzione italiana. La maggior parte, inoltre, dichiara di averlo letto. Non è chiaro in che modo i vari suonatori si siano formati una opinione sul lavoro di ricerca di Bentzon, poiché spesso si fa riferimento agli studi del danese con un certo disprezzo, ad esempio Burranca (ma non solo lui) esclama «ha sprecato un mucchio di carte e di tempo lui». 44 Altri suonatori invece non esprimono alcun giudizio.
3.8. Tecnologia e metodologia
Non conosco direttamente la tecnologia di cui dispone Oppo (il modello dei registratori), posso solo dedurre sulla base dei materiali digitalizzati consultati, che il compositore abbia utilizzato due strumenti per la registrazione, uno per le conversazioni, un altro per le esecuzioni (le quali sono tutte soliste ed effettuate in casa dei relativi suonatori, mai in altri contesti). 45 Dal punto di vista tecnico, posso solo ipotizzare dalle descrizioni dei supporti magnetici e dalle informazioni contenute nelle schede FKM che Oppo abbia utilizzato il modello di nastro “Maxwell UDII 90” del tipo 19,2 cm/sec. (la durata media di questo tipo di nastri magnetici corrisponde all’incirca a 45’). 46 Per quanto riguarda le esecuzioni è bene distinguere quelle casuali, da quelle puramente “dimostrative” (iscale e altro) e dalle esecuzioni vere e proprie (perlopiù balli, processioni e accompagnamenti di mutetus). In alcuni casi nelle Conversazioni si fa accenno all’utilizzo di tre canali distinti per ciascuna delle tre canne, per una più precisa trascrizione musicale delle tre parti. Le cosiddette Conversazioni comprendono solo in una certa misura le esecuzioni di brani di repertorio (vengono accennate, ma spesso interrotte per poi essere registrate con il secondo registratore, v. Schede FKM), si ascoltano più che altro una serie di dimostrazioni volte a chiarire al ricercatore il tipo di intervalli prodotti da un particolare cuntzertu, l’intonazione complessiva e l’approssimazione di uno (se solo tumbu) o più suoni (le due canne melodiche o loba) alle intonazioni del temperamento equabile. In linea generale, i frammenti musicali inclusi nelle conversazioni comprendono: 1) prove di accordatura, 2) dimostrazioni sonore finalizzate a spiegare il sistema dei tetracordi, 3) esecuzioni di scale ascendenti e discendenti utili al compositore nuorese per rilevazione con frequenzimetro (cents), 4) frammenti tematici ed eventuali sviluppi (spesso nodas o pichiadas e varie suonate eseguite nel corso di processioni), 5) altro materiale. Aurelio Porcu è l’unico dei suonatori a mettere in campo la propria voce, per l’esecuzione di: (a) un frammento di mutettu; (b) la variante integrale di un canto già registrato e pubblicato in Carpitella-Sassu-Sole – una «canzone de gruba [o] a ‘repenti». 47
3.9. Etnografia
Sulla scorta del materiale raccolto dal compositore è possibile collegare e contestualizzare una serie di informazioni utili a inquadrare ulteriormente il contesto di riferimento (prassi esecutiva e circolazione nella Sardegna meridionale, negli anni ’80) arricchendo il quadro generale negli studi etnografici incentrati sulle varie realtà esecutive e i relativi ambienti sociali. Dalle conversazioni con alcuni suonatori (Burranca, Dore, Fenu, Porcu in particolare) emergono testimonianze – seppur brevi – di ambienti e contesti esecutivi negli anni ‘20/‘30, o più in generale nel ventennio fascista, come pure situazioni sociali significative, sempre riferibili a un periodo storico che precede di qualche decennio gli studi di Bentzon. Sebbene Oppo non abbia iniziato la sua ricerca con l’obiettivo di rilevare aspetti di carattere etnografico, sociologico o antropologico, nel corso dell’indagine pare rendersi conto autonomamente della loro importanza: è significativo, infatti, che il compositore lasci via via molto spazio al racconto personale di ciascun intervistato. Questa “libertà” ha fatto sì che le registrazioni contenessero diversi elementi estremamente utili per una indagine di carattere etnomusicologico. Qui li sintetizzo ed elenco: 1) le memorie e narrazioni “indirette” relative alla fine del diciannovesimo secolo, desunte dalle parole dei suonatori più anziani (nati nei primi anni del secolo scorso) e le relative descrizioni degli ambienti sociali e culturali del tempo che si possono dedurre dalla loro narrazione; 2) il pensiero musicale legato allo strumento: le launeddas sono considerate “residuali”, “fondative”, “originarie”, “arcaiche”, “autentiche”, “antichissime”; senza troppo generalizzare e con le dovute eccezioni, queste discussioni “mitopoietiche” sono portate avanti principalmente dai suonatori della prima generazione del ‘900; 3) le testimonianze dei suonatori più anziani riguardo le peculiarità delle società agro-pastorali sarde del primo ‘900, con un particolare riferimento al mondo del lavoro e ai contesti di apprendimento musicale (la maggior parte dei suonatori di launeddas della prima generazione apprende da – e contestualmente lavora per – il proprio maestro, sia egli calzolaio, contadino o altro); 4) il mutamento dei contesti esecutivi, la questione dell’introduzione del diritto d’autore e i tentativi di avvicinamento di alcuni suonatori a questa realtà; 5) le narrazioni e le descrizioni, offerte da varie generazioni di suonatori, relative al mercato discografico su base sia locale, sia internazionale (partecipazione a raduni e festival), come pure la destinazione e circolazione di una varietà di “prodotti musicali” commercializzati (dal disco alla musicassetta). Per quanto riguarda gli aspetti puramente organologici, con il materiale a disposizione si potrebbe ricreare una tassonomia di sottofamiglie di cuntzertus riscontrati e annotati da Oppo nel corso delle conversazioni. Questo materiale – in assenza di altri scritti nel merito, da parte del compositore nuorese (a eccezione del suo saggio in Sonos) – incrementerebbe non poco la Relazione finale (corredata da una cinquantina di note a piè di pagina, in forma manoscritta, al momento conservate nel FFO, presso la Fondazione Cini, Venezia). Il compositore chiede costantemente ai musicisti di soffermarsi su aspetti di questo tipo – forse escludendone molti altri: ad esempio non chiede mai nulla riguardo al contesto e all’occasione in cui si sceglie di utilizzare uno strumento al posto di un altro: questi aspetti sono talvolta chiariti dagli stessi suonatori, di loro spontanea iniziativa. Con una piccola forzatura, si può dire che sia proprio il grande tempo trascorso con i suonatori ad aver consentito ad alcuni di loro di entrare nel dettaglio di alcune circostanze, rendendo note alcune scelte di carattere organologico e, di conseguenza, funzionali al contesto esecutivo. In alcune conversazioni, ad esempio, i suonatori spiegano il perché dell’utilizzo di un certo cuntzertu, in relazione alla presenza di un coro — nella fattispecie, di cori composti da voci maschili o femminili, come nel caso dei gocius.48 Ricucita la tassonomia si potrebbero confrontare le tipologie di cuntzertus e i vari tagli registrati da Bentzon con quelli raccolti sul campo da Franco Oppo (che si tratti di registrazioni sonore o che se ne parli nelle conversazioni, penso ad esempio al punto d’organo in sol basso, discusso con Spano come pure a molti altri modelli, tra cui il “fiorasseddu in si bemolle” discusso con Daniele Casu (v. Nastro n. 30 lato B – ma ci sono molti altri esempi), a beneficio del quadro storico-musicale relativo a quegli anni e per un possibile ampliamento della indagine. Si noti infine che solo una parte degli esiti analitici contenuti nella Relazione finale di Oppo confluiscono nel saggio dedicato (cfr. Spanu, 1994) quasi totalmente priva del ben più ampio apparato etnografico di cui Oppo è stato a suo modo artefice grazie a una intensiva ricerca sul campo.
4. Conclusioni
Nella presentazione concepita per i seminari del CERM del 1991, Oppo afferma che soltanto in apparenza la musica colta ha avuto una evoluzione lineare autonoma, aliena rispetto ad altre dimensioni del fare musica, o «insensibile a quanto altro di musicale le accadeva intorno. E tutt’intorno essa aveva appunto la musica “popolare”». 49 L’idea per cui sia grazie alla musica di tradizione orale che teorici e compositori rivedano posizioni e pregiudizi contrasta con quanto il compositore affermava a metà degli anni ’80, poco prima di iniziare la sua ricerca, quando dichiarava che «l’evoluzione del linguaggio musicale polifonico-armonico occidentale rappresenta un esempio di progressivo affinamento di un sistema semiotico acustico» (Oppo, 1984, p. 118). Nel 1985, anno in cui inizia il percorso di ricerca sul campo, Oppo pubblica Sagra, per oboe, due violini e viola, un’opera ispirata alle tecniche improvvisative e alle costruzioni sonore tipiche del repertorio per launeddas. Se fino a quel momento il compositore è stato attratto da ninne nanne e canti funebri, adesso sposta il suo interesse «verso quei valori strutturali e quelle modalità elaborative che costituiscono il substrato essenziale della musica popolare della Sardegna» (Giglio, 2011, p. 93).
Tra il 1985 e il 1987, per conto dell’Istituto Superiore Regionale Etnografico di Nuoro, il compositore Franco Oppo (Nuoro 1935 — Cagliari 2014) svolge una ricerca, intitolata “Progetto Murales”, con l’obiettivo di rilevare i sistemi di scale nella tradizione strumentale delle launeddas e le diverse combinazioni di cuntzertus, documentando il lavoro sul campo nel cui ambito sono coinvolti diversi suonatori e costruttori esperti operanti in quegli anni in alcune aree della Sardegna centro-meridionale. Da un corpus di registrazioni sonore inedite, schede tecniche e apparati etnografico-descrittivi affiora un quadro particolareggiato su una indagine che – spingendosi ben oltre gli obiettivi inizialmente prefissati dal compositore/ricercatore – informa su: stili, pratiche e scenari esecutivi; modalità di circolazione e di fruizione dei repertori; scelte e discorsi musicali propri di ciascun suonatore/costruttore; adesione a (o distacco da) schemi musicali preesistenti e margini di creazione e/o invenzione di ordine organologico e musicale. 1 Insieme ad alcuni esponenti di spicco, fra cui Dionigi Burranca e Aurelio Porcu, i suonatori e costruttori di launeddas incontrati da Oppo sono stati di fatto interpreti, partecipi e, soprattutto, prosecutori della tradizione strumentale di quegli anni. Il percorso immersivo ha spinto il compositore nuorese oltre l’ascolto “mediato” della musica di tradizione, consentendogli di ampliare peraltro i suoi orizzonti teorici. Pur non essendo interessato a compiere una indagine etnomusicologica in senso stretto, l’esperienza a contatto diretto con i suonatori nel corso dell’indagine sul campo ha contribuito alla produzione di numerosi documenti sonori che testimoniano una dimensione espressiva in cui non tutto risulta prevedibile e dove, al contrario, tanti aspetti del fare musica vengono costantemente problematicizzati dai protagonisti di questa tradizione strumentale. Lo scritto che segue, pertanto si suddivide in due parti: la prima rappresenta un approfondimento rispetto a quanto abbia preceduto tale ricerca e di come l’opera compositiva di Franco Oppo (1976-1983) abbia avuto un peso rilevante sull’approccio etnografico che egli ha riservato all’esperienza sul campo tra i suonatori di launeddas; la seconda, riguarda esclusivamente la ricerca condotta nel biennio 1985-1987 e si sofferma sulla metodologia e sugli “output” che sono scaturiti da questa indagine, come pure sui protagonisti, sul loro modo di pensare ed eseguire la musica e sui rapporti tra i vari esponenti di questa tradizione strumentale.
Riferimenti bibliografici
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- Strutturazione dei dati delle schede di catalogo. Scheda BDI; Beni demoetnoantropologici immateriali (2006), Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione, Roma.
Registrazioni sonore inedite
I.S.R.E. Progetto Murales, Registrazioni (Conversa-zioni) inedite di Franco Oppo:
- Nastro n.1, Lato A - Conversazione con Dionigi Burranca - Ortacesus 29.12.1986.
- Nastro n.1, Lato B - Conversazione con Dionigi Burranca - Ortacesus 29.12.1986
- Nastro n. 2, Lato A - Conversazione con Dionigi Burranca - Ortacesus 30.12.1986
- Nastro n. 2, Lato B - Conversazione con Dionigi Burranca - Ortacesus 30.12.1986
- Nastro n. 3, Lato A - Conversazione con Dionigi Burranca - Ortacesus 3.1.1987
- Nastro n. 3, Lato A - Conversazione con Dionigi Burranca - Ortacesus 3.1.1987
- Nastro n. 4, Lato A - Conversazione con Dionigi Burranca - Ortacesus 3.1.1987
- Nastro n. 5, Lato A - Conversazione con Dionigi Burranca - Ortacesus 4.1.1987
- Nastro n. 6, Lato A - Conversazione con Aurelio Porcu - Villaputzu 9.1.1987
- Nastro n. 6, Lato B - Conversazione con Aurelio Porcu - Villaputzu 12.1.1987
- Nastro n. 7, Lato A - Conversazione con Aurelio Porcu - Villaputzu 21.1.1987
- Nastro n. 7, Lato B - Conversazione con Aurelio Porcu - Villaputzu 21.1.1987
- Nastro n. 8, Lato A - Conversazione con Giovanni Casu - Cabras 29.1.1987
- Nastro n.8, Lato B - Conversazione con Giovanni Casu - Cabras 29.1.1987
- Nastro n. 10, Lato A - Conversazione con Stefano Crobu - Zerfaliu 12.2.1987
- Nastro n. 21, Lato A - Conversazione con Benigno Sestu - San Vito 19.3.1987
- Nastro n. 21, Lato B - Conversazione con Benigno Sestu - San Vito 19.3.1987
- Nastro n. 24, Lato A - Conversazione con Vincenzo Bellu - Riola 7.5.1987
- Nastro n. 24, Lato B - Conversazione con Vincenzo Bellu - Riola 7.5.1987
- Nastro n. 25, Lato A - Conversazione con Isidoro Fenu - San Vero Milis 14.5.1987
- Nastro n. 25, Lato B – Conversazione con Isidoro Fenu - San Vero Milis 14.5.1987
- Nastro n. 26, Lato A - Conversazione con Isidoro Fenu - San Vero Milis 14.5.1987
- Nastro n. 27, Lato A - Conversazione con Giuseppe Cuga - Ovodda 31.5.1987
- Nastro n. 28, Lato A - Conversazione con Giuseppe Cuga - Ovodda 31.5.1987
- Nastro n. 30, Lato A - Conversazione con Daniele Casu - Oristano 20.6.1987
- Nastro n. 30, Lato B - Conversazione con Daniele Casu - Oristano 20.6.1987
Note
- Lo studio dei documenti scritti e sonori relativi alla ricerca sul campo di Franco Oppo è stato da me realizzato nell’ambito delle attività previste per un assegno di ricerca della durata di un anno sul progetto “La ricerca etnografica e etnografico-compositiva di Franco Oppo” [Università di Cagliari, PRIN – Bando 2017 (assegnazione 2019), Responsabile Scientifico: Ignazio Macchiarella].
- Fiorassiu in la è eseguito sulla base dell’estratto di una parte iniziale di un ballo suonato da Luigi Lai alle launeddas, «su cui si basa la precedente Baroniese per pianoforte a quattro mani» (Carraro, Melis & Spanu, 2004, p. 92); Variazioni su temi popolari per launeddas e live electronics è stata eseguita per la prima volta a Darmstadt, il 17 luglio 1992 (cfr. Carraro, Melis & Spanu, 2004, p. 70).
- Per un approfondimento sulla manipolazione elettronica in tempo reale si legga Orcalli (1995).
- Per una panoramica generale sulla diffusione dello strumento fra suonatori e costruttori nel biennio 1985-1987, si faccia riferimento alla Relazione finale inedita di Franco Oppo, e in particolare si osservi la “mappatura” contenuta nella tabella I, ai fogli 7-9. Per quanto riguarda alcune osservazioni relative agli stili e alla diffusione oltre l’area meridionale, Oppo sostiene che nel panorama generale delle launeddas l’aspetto innovativo, rispetto alle ricerche di Andreas Fridolin Weis Benzon, è la presenza di alcuni suonatori – quali Giuseppe Cuga e Cesare Carta – in aree “atipiche”; gli stili della scuola di Ovodda e Nuoro, infatti, non si riferiscono al repertorio tradizionale, ma propongono temi e stili assimilabili alla musica vocale della Barbagia (si legga il paragrafo 1.4.2., foglio 24, della suddetta relazione).
- Maderna e Berio fondano il Centro di Fonologia di Milano nel 1958. In una intervista radiofonica [Clip 3], la musicologa Susanna Pasticci fa riferimento al processo di assimilazione delle musiche non soltanto “di un passato remoto” ma pure quelle «di un passato più recente a cui Maderna riconosce un’autentica vocazione sperimentale. È quello che accade, ad esempio, nel suo Requiem (…) una composizione per soli, coro e orchestra, che Maderna scrisse nel 1946: nel Kyrie di questo Requiem, Maderna si appropria di una piccola cellula musicale: un motivo di tre note, ripreso dall’ultimo movimento della Sinfonia di Salmi di Igor Stravinsky, e lo rielabora in una chiave personalissima (…)» (cfr. Rai Radio3, Bruno Maderna, raccontato da Susanna Pasticci, 10’28’’-11’03’’ [3_href='https://www.raiplaysound.it/audio/2018/04/WIKIMUSIC-8e06c4a7-0b00-41c9-96b9-980ca7640734.html']). Allo stesso modo, impiega in altre composizioni la canzonetta Biondina in gondoleta (de Benedictis, 2000). Per un approfondimento sulla creazione e la ri-creazione musicale di Maderna, si legga in particolare Pasticci (2005 e 2022).
- Registrazioni di canti dei battipali veneziani sono state svolte da Luigi Nono nei primi anni ‘60 (Agamennone, 2018: 656); individuati e classificati come canti di lavoro sin dai primi anni del ‘900, entrano nel circuito discografico con le incisioni dell’etichetta Albatros (Leydi, 1973, pp. 296-207).
- Per approfondimenti si legga Patrizia Mazzina (2012), “La musica d’avanguardia ‘mmezzu lu mari della scoperta del popolare: l’esperienza estetica di Luciano Berio”, in La canzone, il mare, a cura di Enrico Careri e Simona Frasca. Milano: LIM.
- Senza dimenticare il contributo e l’incitamento di «illustri studiosi e musicisti cui il “canto popolare” interessava per varie ragioni (come non ricordare Giuseppe e Pietro Paolo Mulè, Fausto Torrefranca, Fernando Liuzzi, Arnaldo Bonaventura, Cesare Caravaglios, Giulio Fara, Francesco Balilla Pratella, Paolo Emilio Pavolini, Michele Barbi, Ottavio Tiby) (…)» (Nataletti, Carpitella, s.d., p. 29).
- Testimonianza di quanto espresso da Luigi Nono, riportata da Franco Oppo attraverso la voce di un narratore radiofonico, e inclusa a mo’ di introduzione nell’ambito monografia radiofonica [Clip 2] curata da Emanuele Pappalardo (1991, 01’45’’-02’00’’ [Clip 2]). In riferimento alle due località, menzionate da Nono, e considerando l’anno in cui è stata pronunciata, è probabile che il compositore si riferisse a Orgosolo per le “vicende cinematografiche” legate al celebre documentario di Vittorio De Seta (1961).
- Sa pastorella è un’esecuzione alle launeddas svolta durante la messa; nel corso delle conversazioni tra Oppo e i suonatori e costruttori di launeddas, il compositore ne parla diffusamente con Dionigi Burranca (cfr. I.S.R.E. Progetto Murales, Nastro n. 2, Lato A, Conversazione con Dionigi Burranca, Ortacesus, 30.12.1986, 30’44’’) e Giovanni Casu (cfr. I.S.R.E. Progetto Murales, Nastro n. 8, Lato B, Conversazione con Giovanni Casu, Cabras, 29.1.1987, 19’30’’-21’32’’): qui, in particolare, si testimonia l’esclusione della pastorella dal momento dell’elevazione. Per approfondimenti si consulti Lutzu, 2012, voll. 11 e 12.
- Ad esempio, nel corso di una conversazione con Giuseppe Cuga nella primavera del 1987 (cfr. I.S.R.E. Progetto Murales, Nastro n. 28, Lato A. Conversazione con Giuseppe Cuga, Ovodda 31.5.1987, 00’00’’-03’51’’).
- Raccolta di Giorgio Nataletti.
- La lettura di queste antologie, con specifico riferimento alle sezioni dedicate alla Sardegna, restituiscono un quadro quantitativo e qualitativo dei canti raccolti e in teoria disponibili per lo studio, l’ascolto, il confronto.
- Per uno studio sullo sviluppo e sulla diffusione di una discografia commerciale della musica tradizionale sarda, anche attraverso la radio, si leggano Lutzu (2022) e Milleddu (2021).
- Negli anni della formazione entra in contatto per la prima volta con il Corpus di musiche siciliane di Alberto Favara (Delcambre-Monpoël, 2001, p. 93). Per un approfondimento si legga Berio prende Mutetu de tristura da Canti di Sardegna di Giulio Fara (Ricordi, 1923). L’opera è stata ripubblicata l’anno scorso in copia anastatica e nella prefazione a cura di Marco Lutzu e Myriam Quaquero si accenna a Luciano Berio (cfr. Lutzu, Quaquero, 2022, p. XXI).
- Joyce Lussu (1912-1998) è stata partigiana, autrice e traduttrice; coniugata in seconde nozze a Emilio Lussu (1890-1975), antifascista, politico e fondatore del Partito Sardo d’Azione. Franco Oppo è stato amico sia di Joyce sia del figlio Giuannìcu Lussu (Trudu, 2009, p. 101, nota 28).
- Si osservi, ad esempio, la formalizzazione dei silenzi in Cinque pezzi per pianoforte, specialmente nel pezzo n. 4: qui Oppo fornisce precise indicazioni di ordine temporale da eseguire tra un arpeggio e l’altro, espresse in quantità di secondi.
- Un’accurata, e inedita, analisi formale della prima berceuse è stata realizzata dal M° Mario Carraro (Conservatorio “Palestrina” di Cagliari), che ringrazio per averla condivisa con me nel corso dei miei studi.
- I documenti sono consultabili presso il Fondo Franco Oppo, da ora innanzi FFO, custodito alla Fondazione Cini, Venezia. Per un approfondimento sul tema dei gruppi folkloristici in Sardegna si legga Lortat-Jacob (2001, p. 64 in Calzia, 2005, p. 546).
- Oppo discute precisamente con: Dionigi Burranca, Aurelio Porcu, Giovanni Casu, Stefano Crobu, Don Giovanni Dore, Pietrino Murtas, G. Orrù, Giovanni Murtas, Francesco Castangia, Beniamino Cuccu, Giovanni Meli, Benigno Sestu, Ennio Meloni, Vincenzo Bellu, Isidoro Fenu, Giuseppe Cuga, Luigi Melis, Dante Spano, Daniele Casu.
- Non soltanto il già menzionato sistema di cuntzertus, parzialmente confluito in Oppo 1994, ma pure un approfondimento di carattere organologico su alcune tipologie di cuntzertu cadute in disuso e “mitizzate” dagli stessi suonatori/costruttori, mi riferisco a muriscu, contrapuntu, mediana frassa, punt’e kyrie.
- Cfr. I.S.R.E. Progetto Murales, Nastro n.26 Lato A, Conversazione con Isidoro Fenu, San Vero Milis, 14.5.1987, 23’39’’-24’26’’: «Lucio Garau: - adesso stiamo facendo una raccolta non dico indiscriminata ma insomma stiamo raccogliendo… però sulle cose su cui vuoi basare lo studio bisogna (…) una verifica si potrebbe fare, bisogna ritornare nei posti e ricontrollare gli strumenti; Franco Oppo: - ma sai, il lavoro che voglio fare io non è proprio questo, il punto è quello dei sistemi di (…) sistemi dei cuntzertu, [al] massimo degli accoppiamenti, capisci? cioè il problema generale non penso si possa affrontare con questi mezzi (…) bisogna raccogliere i materiali in altro modo, con i microfoni a contatto e analizzarli; Lucio Garau: col computer, una media di tutto quanto e avere una statistica del sistema.»
- Le nodas (o pichiadas) sono «frasi musicali tramandate per tradizione (…) tendono a terminare sul centro tonale della scala (1° grado)», cfr. Lutzu, 2012 vol. 11, pp. 24 e 31.
- Le tre canne dotate di ancia semplice sono denominate (dalla più grave alla più acuta): tumbu (bordone), mancosa manna (canna melodica grave), mancosedda (canna melodia acuta). Per un approfondimento si leggano Bentzon, (2002) e Lutzu (2012, voll. 11 e 12).
- Nella scheda FKM n° 61 potrebbe esserci un errore, il suonatore menzionato probabilmente è Giovanni e non Pietrino Murtas. Lo deduco al momento da due cose: l’esecuzione dura oltre 4 minuti (il vecchio Pietrino non sembra riuscire a suonare così a lungo), il resto delle informazioni anagrafiche risultano analoghe a quelle precedenti, relative a Giovanni Murtas; anche le annotazioni connesse a questa esecuzione presentano analogie ritmiche a quella registrata poco prima (v. scheda FKM n° 60).
- Idem.
- V. I.S.R.E. Progetto Murales, Nastro n. 10 lato A, Stefano Crobu.
- V. I.S.R.E. Progetto Murales, Nastro n. 8 lato B, Giovanni Casu.
- V. I.S.R.E. Progetto Murales, Nastro 3, lato A, Dionigi Burranca.
- V. I.S.R.E. Progetto Murales, Nastro n. 7 lato A, conversazione con Giuseppe Cuga, 7’ ca. Qui come in più punti di questa conversazione emerge sia un sostrato musicale indipendente (cioè, sviluppato nell’area della Barbagia) per quanto riguarda alcune esecuzioni, sia l’evidenza di una circolazione musicale proveniente dall’area di Villaputzu, Samatzai e altre località nel Sarrabus. Alcuni suonatori originari della zona (Seulo), infatti, per questioni lavorative, si sono spostati in altri paesi (a Villaputzu e Ardauli, ad esempio), apprendendo a loro volta lo stile locale.
- V. I.S.R.E. Progetto Murales, Nastro n. 2, lato A, conversazione con Dionigi Burranca, 21’ ca.
- Anche detta croba, si riferisce alla coppia di canne tumbu-mancosa manna (cfr. Lutzu, 2012, vol. 11, p. 15).
- V. I.S.R.E. Progetto Murales, Nastro n. 3 lato A, conversazione con Dionigi Burranca, Ortacesus, 3 gennaio 1987, 05’03’’-05’50’’ ca.
- Nel trascrivere il cuntzertu ispirandosi a quanto trascritto in Bentzon (2002, p. 20), Oppo riporta lo stesso arrefinu sia alla mancosa manna, sia alla mancosedda (quinto grado).
- V. I.S.R.E. Progetto Murales, Nastro n. 2, lato A, conversazione con Dionigi Burranca, 45’50’’. Traduzione: “Questo moriscu è fatto dagli abitanti di Cabras senza scuola, e basta”.
- V. I.S.R.E. Progetto Murales, Nastro n. 2, lato B, conversazione con Dionigi Burranca, 11’55’’-12’20’’.
- Si ascolti I.S.R.E. Progetto Murales, Nastro n. 30 lato B, conversazione con Daniele Casu, 07’10’’ ca.; 28’00’’ ca.; 31’48’’ca.
- V. I.S.R.E. Progetto Murales, Nastro n. 7, lato A, conversazione con Giuseppe Cuga, 33’20’’-35’20’’ ca.
- V. I.S.R.E. Progetto Murales, Nastro n. 2, lato A, conversazione con Dionigi Burranca 38’09-38’26’’ ca.
- V. I.S.R.E. Progetto Murales, Nastro n. 25, lato A, conversazione con Isidoro Fenu 35’40’’ ca.
- Trad: noi diciamo punto d’organo piccolo, punto d’organo grande e punto d’organo punto d’organo “terzo”), v. I.S.R.E. Progetto Murales, Nastro 8, lato B, conversazione con Daniele Casu, 09’ ca.
- V. I.S.R.E. Progetto Murales, Nastro n. 2, lato A, conversazione con Dionigi Burranca 37’00’’-37’39’’.
- V. I.S.R.E. Progetto Murales, Nastro n. 2 lato B, conversazione con Dionigi Burranca, da 25’32’’ a 27’ ca.
- Originale in sardo, v. I.S.R.E. Progetto Murales, Nastro n. 2 lato B, conversazione con Dionigi Burranca, da 07’40’’-07’42’’ ca.
- Tranne nel caso di alcune esecuzioni di Benigno Sestu, presso la Playgame a Selargius.
- Utilizza supporti diversi in occasione delle registrazioni in studio con Benigno Sestu.
- Così definita da Aurelio Porcu, (v. I.S.R.E. Progetto Murales, Nastro n. 7, lato B 33’29’’ - 39’19’’ e Nastro n. 7, lato B, 35’ ca.)., inoltre cfr. Carpitella, Sassu, Sole (2011, p. 111): «n. 21 canto satirico in dialetto campidanese, con accompagnamento di launeddas (…). La canzone a curba può essere eseguita senza accompagnamento strumentale. Sono due strofe di otto doppi settenari ciascuna, con rime interne nella parte finale, il senso logico e la curva melodica abbracciano coppie di versi non rimanti. Schema: AB, A’B’. A’’B’’, C, cD».
- V. I.S.R.E. Progetto Murales, Nastro n. 6, lato A, conversazione con Aurelio Porcu, 16’ ca. Un ragionamento similare si ascolta anche nella conversazione con Giuseppe Cuga, v. I.S.R.E. Progetto Murales, Nastro n. 27, lato A, conversazione con Giuseppe Cuga, Ovodda, 31 maggio 1987; 29’30’’-30’51’’ ca.
- Ringrazio ancora una volta Mario Carraro, per aver condiviso con me una copia della relazione di Franco Oppo, intitolata Microvarianti, varianti, variazioni: riflessioni, ricerche e sperimentazioni su materiali musicali popolari.